La parola speranza gode certamente nel linguaggio comune di un certo rispetto e di una certa connotazione positiva. Ma capiamo realmente cosa nominiamo quando parliamo di speranza? Wikipedia definisce la speranza come “la fiduciosa attesa di un bene che quanto più desiderato tanto più colora l’aspettativa di timore o paura per la sua mancata realizzazione”. Definizione certo più che condivisibile, ma quella che viene chiamata, morbidamente appunto, una “fiduciosa attesa”, non deve certo offuscare alla vista l’insidiosissimo “timore o paura per la sua mancata realizzazione”.
La speranza, in questa interpretazione fintamente positiva, diventa appunto l’alleata dell’uomo del divenire: l’alleata quindi di colui che vede le cose nascere dal nulla e nel nulla finire per farvi ritorno. L’uomo (insieme a tutto quello che lo circonda), così concepito, non può che sperare di rimandare al più tardi possibile il momento dell’appuntamento, inevitabile, con il nulla. L’uomo che spera di sottrarsi all’annientamento vivendo nella paura di esso. Ma non è tutto, in realtà quest’attesa chiamata speranza, perché di questo si tratta, non fa altro che avvicinare al nulla la vita (l’essere) stessa dell’uomo: colui che spera è colui che dimentica l’attimo, è colui che posticipa il vivere, è colui che si colloca in un ipotetico futuro dimenticandosi dell’unico istante che gli è dato di vivere, ovvero quello presente. La speranza di salvezza, così appare, già un morire un poco alla volta. La speranza prende il posto dell’atto, l’unico legittimo occupatore dell’attimo presente. In questo senso sperare è vivere di meno e confondere una male con un rimedio.
In ultimo merita far notare come la speranza, non casualmente, sia certamente uno dei punti cardine delle religioni relative al Dio della Bibbia. Religioni che infatti affermano che la vita attuale è solamente un surrogato della vita, reale ed eterna, che ci attende dopo la morte. In questo senso come non sperare un una Salvezza?