L’amore come nichilismo

La biochimica conosce la durata dell’amore: massimo 18 mesi. Così scienza e contemporaneità vedono l’amore. Un oggetto di consumo destinato a finire. Sul fatto che l’amore possa finire sono però tutti concordi, è sul fatto che ogni amore debba iniziare per finire che non ci diamo pace. Perché questa visione non lascia dubbi, non lascia vie di scampo o di salvezza. Non propone un “se” ma soltanto un “quando”. L’amore fiammifero da consumare in fretta prima che si arda: un sentimento da fastfood.

La contemporaneità tende a identificare quindi l’amore col “divenire”: questo amore che un tempo non era, adesso è e domani non sarà più. E questo postulato insegue e minaccia sempre l’amore come un infallibile vaticinio. L’amore, quel sentimento fortissimo che ci travolge, un tempo non era e domani non sarà: era nulla prima e sarà nulla dopo. Per l’ennesima volta l’occidente finisce per identificare l’essere col non-essere, il positivo col negativo. L’amore diventa una sorta di stand-by in attesa di una irrevocabile morte: ma l’attesa della fine non è forse peggiore della fine stessa?

La vita come contraddizione

Vivere è essere nella contraddizione: accettandola o meno. Vivere è uscire da quell’amore profondo e inarrivabile che abita il cosmo attraverso le proprie leggi invalicabili. Gli esseri umani superbi, nel loro definirsi soggetti, escono prepotentemente da quell’amore naturale, penetrando in un’abominevole dimensione dove loro stessi si considerano autori ed esclusivi proprietari di un amore appartenente a una categoria superiore.

Stabilita questa illusoria natura superiore, l’uomo, insaziabile di inutili categorie, cerca di realizzare il proprio amore, cercando l’armonia e la “profondissima quiete”. Ignaro che l’unica pace assoluta e graditissima, l’uomo la raggiunge esclusivamente con la propria morte, quando torna a essere fedele obbediente delle immutabili leggi della natura. Con la morte, infatti, decade la contraddizione e l’uomo torna a essere polvere di stella priva dell’autocoscienza di esserlo e finalmente liberata dall’incubo del senso.

Mocambo

Già la porta
mi parlava di te
chiedendomi di non entrare.

Tu colossale
e vulnerabile.

Alle tue lacrime silenziose
faceva da ventriloquo
il macinacaffè.

Vita Nova

l’ombra inquietante
di un pensiero troppo comune
banchetta sulle carni straziate
del Poeta ormai nudo

conoscere è il calice sanguigno
del suo Cristo rinnegato
dalla vera immagine
del proprio calvario

troppo spesso ignaro
che la Verità riposa
nell’incompresa crepa
di un colorato azulejos

Il ricordo come delirio

La memoria è persistente e dolorosa, tenera e subdola. La memoria è quanto resta a noi – e di noi – di quello che non appare più (che secondo molti coincide col non essere più). Questo fa di lei veramente l’unico nostro possesso in un mondo di cui niente ci è dato di possedere. Ma quanto della memoria, quanto di questo nostro unico possesso, al quale affidiamo tutta la nostra vita, è attinente al Vero? Assolutamente nulla.
Ogni biografia (come ogni memoria) è la rappresentazione di ciò che non è stato mai. Niente di quanto ricordiamo corrisponde alla fotografia dell’attimo… niente. Nonostante nella nostra testa alberghino dei ricordi molto nitidi, restano pur sempre dei ricordi… dei disegni quindi, che per quanto ben fatti non sono mai paragonabili alla fedeltà di una fotografia realistica.
In virtù di questo la memoria, proprio come la storia (Nietzsche docet), ha quindi, allo stesso tempo, utilità e danno. Essa ci concede l’esperienza nell’affrontare la nostra quotidianità, ma allo stesso tempo può farsi pericoloso vincolo alla nostra crescita e alla nostra sperimentazione. Troppo spesso gli errori e i dolori del passato ci impediscono, da una parte di sbagliare ancora, ma dall’altra ci precludono la possibilità di ritentare, magari questa volta vincendo. Sarebbe dunque folle dare troppa fiducia a qualcosa che non è stato mai.
Quindi chi ricorda delira (senza saperlo) e non si stanca di scegliere, tra il delirio e il nulla, ancora una volta, il delirio…